Filologia Italiana

Filologia della letteratura degli italiani

Collana di filologia, linguistica e critica letteraria / Edes

Direttore Dino Manca

Collana di Filologia, linguistica e critica letteraria

Direttore Dino Manca

La collana «Filologia della letteratura degli Italiani» si propone da una parte di realizzare un significativo corpus di edizioni critiche e dall’altra di tracciare un’articolata mappa tematica e concettuale fatta attraverso ricognizioni ragionate della ricca produzione testuale sarda e italiana. La collana s’inserisce nella più generale e complessa opera di recupero di una testualità plurilingue che ha concorso a costruire nei secoli il variegato sistema linguistico e letterario degli italiani.

Quando si iniziò a riflettere intorno all’ipotesi di dare concreta attuazione al progetto di una nuova collana che, tra filologia e critica, proponesse una più inclusiva idea di letteratura, proprio in quei mesi l’inestimabile patrimonio della Biblioteca Universitaria di Sassari – costituito di decine di migliaia di volumi, di centinaia di manoscritti, di migliaia di periodici, di preziose carte geografiche – veniva trasferito, dopo più di quattrocento anni, dall’ex Palazzo dello Studio Generale, oggi sede di rappresentanza dell’Università, a piazza Fiume, nel complesso monumentale del vecchio ospedale, restaurato con i fondi del Ministero per i beni e le attività culturali. Fu non solo un passaggio storico, importante per l’intera regione, ma divenne altresì per noi occasione di riflessione sul ruolo e la funzione delle biblioteche e, soprattutto, di ripensamento del rapporto possibile con quel patrimonio inestimabile che stava in città. Un collana di filologia, linguistica e critica sulla letteratura degli italiani non poteva prescindere dal suo primo luogo di ideazione e di produzione: secondo la dinamica dei centri concentrici, dalla Sardegna (e particolarmente Sassari con la sua biblioteca più importante) all’Italia, dalla soglia di casa al mondo, dal locale al globale. Nel Fedro di Platone, nemico della scrittura e difensore del dialogo e della «parola viva», Socrate racconta di Theuth, dio egizio delle arti e dei mestieri, che presenta al re Thamus, sovrano dell’Egitto, la sua ultima invenzione, la scrittura, capace, a suo dire, di fissare in eterno le conoscenze umane («Queste, o re, faran più sapienti gli Egizii e più memoriosi; però ch’elle sono medicina di memoria e sapienza»). Thamus (proiezione autorale) rifiuta il dono perché considera la scrittura come un veleno (phármakon), formula vana e superba, nemica della vera conoscenza e capace – in quanto copia sbiadita della voce che «ripete senza sapere» – di allontanare l’uomo dalla verità, dal suo senso originario, dalla presenza dell’anima di colui che parla, unica garanzia di sincerità e autenticità. A Platone rispose, duemilatrecento anni dopo, Jacques Derrida che, confutando la tradizione filosofica occidentale incentrata sul mito della «parola in presenza», rimarcò invece l’importanza della scrittura come garanzia di conoscenza e modello di ogni linguaggio e difese il testo scritto come garante delle «differenze» e della molteplicità, in quanto consegnato alla tradizione e alle differenti e mai concluse interpretazioni: il testo scritto, il testo tramandato, il testo interpretato. Per Alberto Manguel l’esistenza di una biblioteca dà al lettore la forza di combattere i vincoli del tempo permettendogli di conoscere qualcosa di sé attraverso le storie di altri uomini. La scrittura crea i libri, i libri, veicolo di saperi e vissuti, creano le biblioteche e le biblioteche rappresentano il luogo della memoria delle comunità insediate in un territorio. Attraverso la memoria si ricostruisce l’identità personale e collettiva e si dà un fondamento alla coscienza di sé. Senza memoria vengono meno i legami con le proprie radici e si cessa di essere coscienza progettante. Per queste ragioni decidemmo di ripartire dalle carte, dalle carte degli scrittori conservate nella Biblioteca Universitaria di Sassari. Per altro si aveva contezza del meritorio lavoro svolto in quegli anni dalla direttrice, la dottoressa Maria Rosaria Manunta, tutto finalizzato ad arricchire ulteriormente il patrimonio manoscritto e librario con nuove importanti acquisizioni (Fondo Ruju, Fondo Costa, Fondo Oggiano, Fondo Calvia). Il progetto della Manunta era chiaro: lavorare per la raccolta, conservazione e valorizzazione di un tesoro che altrimenti avrebbe rischiato il depauperamento, lo smembramento e la dispersione. Da qui nacque l’idea di proporre uno studio organico delle opere dei più importanti scrittori, partendo dai manoscritti e dalla loro descrizione per passare attraverso la ricostruzione delle loro storie redazionali e finire con le diverse fortune editoriali (produzione, circolazione e fruizione). In alcuni casi, inoltre, scandagliare la documentazione manoscritta precedente alle edizioni a stampa e indagare le difformità intercorse fra i testimoni, ci ha consentito, pur nella limitatezza del campo d’azione, di entrare dentro il laboratorio degli autori, dentro quel «farsi testo» che è proprio di ogni artigianato compositivo e di ogni opera d’arte. E da qui prende abbrivo la collana dal titolo, di per sé programmatico, «Filologia della letteratura degli italiani». Ma quale idea di letteratura ci muove? Quale fondamento epistemologico? Quale orizzonte di senso?

Senza contesto, si sa, non è data comunicazione e il dato contestuale si inserisce sempre in una dimensione crono-topica, ossia dentro precise coordinate storiche e geografiche. Per comprendere il messaggio il destinatario deve far ricorso a ulteriori informazioni linguistiche, situazionali e culturali, relative agli orientamenti di pensiero, alla sensibilità artistica e ai codici antropologici propri dell’epoca in cui si produce il messaggio stesso. L’universale è concreto e il luogo e il tempo sono dati strutturali. Parafrasando Dionisotti, non è data comunicazione letteraria senza storia e geografia letteraria. Se si volessero indagare le ragioni delle difficoltà che talvolta alcuni studiosi hanno incontrato nel comprendere il variegato e articolato si-stema linguistico e letterario degli italiani, si dovrebbe, secondo Nicola Tanda – nostro maestro e vero esempio di Mentore – ripercorrere criti-camente il dibattito sviluppatosi nel nostro paese sui fondamenti teorici sui quali si sono specificati i concetti stessi di letterarietà e di letteratura (per lungo tempo informati sui principi dell’idealismo crociano) e si è costruito il modello egemone di storia letteraria (desanctisiano e toscano-centrico), e poi, alla luce di un rinnovato approccio metodologico ed ermeneutico, si dovrebbero rileggere – partendo da un esame interno dei fenomeni – i codici, i sottocodici e i fattori propri di una ricca produzione testuale policentrica e plurilingue.

La Storia della letteratura italiana del De Sanctis nacque con l’intento di fornire un’identità nazionale ai tanti piccoli stati – sorti sulle ceneri di signorie e principati (quando le grandi monarchie feudali andavano costruendo nel resto d’Europa gli stati nazionali) – che solo dopo tanti secoli di lotte ritrovavano quell’unità faticosamente costruita dai Romani e definitivamente perduta con i Longobardi. Dopo una prima fase caratterizzata da una sostanziale carenza speculativa, molte delle storie letterarie novecentesche per lungo tempo replicarono quel modello ottocentesco, che proponeva – secondo criteri toscano-centrici e dinamiche centripete – un’idea astrattamente unitaria della produzione testuale e letteraria degli italiani. Da San Francesco fino agli anni dell’unificazione, attraverso la celebrazione dei letterati più rappresentativi e illustri si ipotizzò l’esistenza, pur sotterranea e tra mille divisioni, di un’unica civiltà culturalmente intesa e di una «nazione» che finalmente si faceva «stato» conquistando la tanto anelata unità politica. La discriminante non poteva che essere linguistica, anzi geo-linguistica: non della lingua poetica tout court, così come forse sarebbe dovuto essere (una storia del linguaggio poetico che peraltro dovette molto al contributo del Carducci), quanto della modellizzante lingua poetica fiorentina. Il criterio di inclusione ed esclusione si fondò, infatti, sul toscano letterario scritto, senza distinzioni diatopiche e diacroniche, diastatiche e diafasiche, senza considerare il rapporto tra oralità e scrittura, come se gli italiani avessero parlato e scritto per secoli la stessa lingua e avessero da sempre prodotto una testualità omogenea nello spazio e nel tempo per modalità di trasmissione, codici, convenzioni e generi utilizzati e per destinatari coinvolti.

A differenza di quanto era accaduto per altre grandi lingue di cultura, la fisionomia dell’italiano fu determinata dallo stretto legame con la tradizione letteraria, oltre tutto avviata, soprattutto a partire dalla proposta del Bembo, sui binari della «compattezza e dell’arcaismo classico»; una tradizione che si dimostrò lontana dalla lingua d’uso quotidiano, riccamente rappresentata dai dialetti parlati nelle varie regioni. Un tale scarto avrebbe provocato col tempo il declino della stessa lingua italiana, appresa, come una lingua straniera, in modo libresco, attraverso lo studio delle grammatiche, dei vocabolari e delle opere dei classici e sentita, parafrasando Isella, «estranea e inamabile». Da una parte, quindi, si consolidò un’élite di intellettuali, scrittori e poeti proiettati verso un modello alto e sublime, attrattivo e legittimante, informato in poesia sul monolinguismo petrarchesco e in prosa sul «bello stilo» boccacciano, dall’altra parallelamente e distintamente sussistettero i tanti parlari e parlanti italici con i numerosi autori, cosiddetti «periferici» o «minori», artefici di una dialettalità insieme «spontanea» e «riflessa», esclusi da quella minoranza di eletti del Parnaso, non disposti ad adeguarsi ad un sistema linguistico allotrio. Si attivò pertanto una dinamica centripeta che più che ad includere tendeva ad escludere dal diritto di cittadinanza, in un’ideale e anelata res publica litterarum. Per aspera sic itur ad astra.

Dopo il 1861 scienziati, intellettuali, studiosi, ricercatori, professori, maestri – come tante altre personalità della politica e dell’economia – si trovarono a dover affrontare la spinosa questione, ineludibile a partire dal primo decennio di vita dello stato unitario, di come «fare gli italiani» una volta «fatta l’Italia». Bisognava ricostruire il paese rinnovando non solo le istituzioni ma anche le coscienze. Ma per «fare gli italiani» si dovette innanzitutto ripensare e riorganizzare il complesso sistema formativo e informativo. Sostanzialmente su ciò si concentrò l’attenzione di Mamiani, De Sanctis, Matteucci e Correnti, ministri della Pubblica istruzione e responsabili delle politiche culturali ed educative tra il 1860 e il 1870. Altrettanto problematica fu, per altro verso, l’opera di riorganizzazione e riunificazione dell’intricata struttura universitaria. Due possibili modelli di riferimento esistevano allora in Europa. Quello francese, centralistico, basato su pochi grandi istituti rigidamente controllati dal potere centrale; quello tedesco, e in parte inglese, federalista, caratterizzato da un alto numero di centri fortemente autonomi. In Italia prevalsero, come in altri settori della vita pubblica, le tesi accentratrici soprattutto da un punto di vista burocratico e amministrativo, pur permanendo un accentuato e ricco policentrismo culturale certamente più rispondente al modello tedesco. In letteratura, per altro verso, la linea seguita dal Manzoni andò af-fermandosi per quasi tutto la parte centrale del secolo. Dopo, dalla se-conda metà dell’Ottocento sino a buona parte del Novecento, come ha scritto Gian Luigi Beccaria, l’architettura regionale «endemica e connaturata alla cultura italiana, torna ad emergere vistosamente; il momento centripeto e l’evasione centrifuga riprendono la secolare alternanza. La soluzione fiorentina dei manzoniani, e la neutra e grigia prosa vulgata nel secondo Ottocento, spingono gruppi periferici a distanziarsi dalla media linguistica, che si teneva lontana da ogni audacia ed oltranza stilistica». A tutto ciò si deve aggiungere il fatto che in Italia, per molti decenni, nella critica letteraria (e non solo) il mainstream filosofico fu ideal-crociano.

Negli anni Cinquanta Dionisotti, con il suo saggio Geografia e storia della letteratura italiana, per primo ripensò in prospettiva diacronica e diatopica la produzione testuale dello stivale letterario, per il recupero di autori fino ad allora considerati a torto minori e periferici, sottolineando il carattere policentrico del nostro paese e ponendosi così in aperta polemica rispetto alle idee unitarie proposte da De Sanctis. Questo accadde quando nel mentre buona parte del pensiero critico europeo e americano andava recependo e rielaborando i fondamenti epistemologici di una nuova rivoluzione linguistica, estetica, ermeneutica ed antropologica. Furono soprattutto i linguisti, infatti, impegnati a studiare il funzionamento della comunicazione verbale, a riscoprire la centralità del testo da intendersi come sistema linguistico stratificato avente regole proprie in grado di spiegare anche il funzionamento dei testi letterari. Subito dopo alcuni studiosi, proprio alla luce di quegli studi, tenta-rono di superare le definizioni estrinseche di letteratura, mirando a co-gliere e a definire la «letterarietà» (ossia quelle condizioni intrinseche che farebbero, appunto, di un testo un testo letterario). A partire dai formalisti russi si cominciò ad affermare che il linguaggio letterario costituisce uno «scarto dalla norma», una sorta di deviazione rispetto alla lingua standard e, secondo la teoria dell’arte come «procedimento», soprattutto che l’«identità semantica» dell’opera letteraria è legata alla peculiarità della sua forma. Nella sua opera di trasformazione del linguaggio ordinario il segno poetico, per sua natura convenzionale e arbitrario, è distanziato dal suo oggetto. La consueta relazione tra segno e referente viene disarticolata e liberata dalla consuetudine della percezione. Il segno acquista così un valore in sé. L’arte restituisce all’oggetto una nuova luce e una rinnovata dimensione di sensibilità attraverso il procedimento dello «straniamento», ossia mediante la sottrazione, appunto, dell’oggetto stesso dall’automatismo della percezione, dal suo ordinario «riconoscimento», per essere riconvertito in «visione». 
Tali indirizzi di studio, va da sé, non potevano non minare alle fon-damenta l’impalcatura concettuale dell’idealismo e del materialismo ot-tocenteschi. Infatti, il primo aveva ridotto l’oggetto al soggetto; il secondo, il soggetto all’oggetto, ritenendo, come il realismo, che di fronte all’io soggetto conoscente esistesse un mondo obiettivo, una realtà in sé oggettivamente rappresentabile. Invece, a partire da certi assunti, il mondo non sarebbe che un oggetto per un soggetto conoscente e non esisterebbe se non per il soggetto conoscente che lo «intenziona» nella sua coscienza (Husserl e Merleau-Ponty); esso sarebbe, parafrasando Schopenhauer, «volontà e rappresentazione». Quel per è il ponte tra l’io e il mondo, è l’insieme dei linguaggi, il «discorso del mondo», la cultura stessa (antropologicamente intesa). Per dirla con Cesare Segre è la cultura che «dà senso al mondo, dato che il mondo prima di essere nominato, descritto e interpretato non è che il caos: il senso del mondo è il nostro discorso del mondo», e il «di-scorso del mondo» è appunto possibile solo attraverso una langue, dentro cioè una comunità di parlanti. Se in principio è la parola, e quindi la lingua, e se la lingua (sistema di segni geneticamente estranei al referente) genera il testo, la mediazione tra l’uomo e il mondo avviene tramite il testo. Tra tutti, il letterario è quello a più alta densità comunicativa, risultato di un’alta elaborazione del codice. Attraverso gli alfabeti del mondo, dunque, un popolo effettua – soprattutto grazie ai suoi poeti, scrittori e artisti – la transizione modellizzante e simbolica dal piano della natura a quello dellacultura, e ogni cultura tende a sua volta a pensare e a descrivere se stessa in un certo modo, ossia a costruire un «automodello». Qui si ritrova il fondamento epistemologico e la stessa ragion d’essere della filologia (philologĭa «amore del discorso», «amore per la cultura», appunto), in quanto ricostruzione e interpretazione dei testi, e si comprende l’ubi consistamdel lavoro del filologo, il cui compito è, come ha scritto Firpo, stabilire «il certo dei testi» piuttosto che «il vero delle cose» attraverso l’individuazione ed emendazione degli errori legati alla loro trasmissione. La verità è verità testuale e la verità testuale è quella esprimente la volontà dell’autore.

Il rapporto dell’Io col mondo (la realtà esterna, effettuale, i fatti in sé, ciò che sta fuori di noi) è dunque mediato dai linguaggi, cioè dal sim-bolico (per Heidegger la «casa dell’essere», la dimensione stessa nella quale si muove la nostra vita) ed è caratterizzato dall’interpretazione. Le lingue si formano nel dialogo ed esse stesse sono dialogo, cioè reciprocità, contaminazione. Ma se il linguaggio trova scaturigine nel dialogo sviluppato dagli uomini nel loro reciproco rapporto, allora l’ermeneutica è altresì l’arte di entrare in dialogo con i testi. Per Gadamer il significato di un’opera letteraria non si esaurisce nelle intenzioni del suo autore. L’interpretazione è situazionale e culturale insieme e si realizza nel dialogo tra passato e presente, perché il testo letterario vive nella storia, rivive ininterrottamente nella coscienza di chi lo legge, si sposta nell’asse diacronico e sincronico, è continuamente interrogato, «intenzionato» e ricreato dentro un orizzonte sempre aperto da un pubblico eterogeneo e composito, che cambia nel tempo e nello spazio. La lettura nasce, infatti, dall’interazione tra un testo e un atto, la «risposta del lettore» appunto, per cui l’opera sorge in una dimensione virtuale che si pone tra lo scritto dell’autore e l’esperienza del destinatario. È il soggetto fruitore che, per dirla con termini fenomenologici, «intenziona» l’oggetto testo; è il lettore che attiva, con strategie diversificate, un senso nascosto al di sotto delle parole. Un tale criterio, utilizzato per determinare e comprendere il letterario, si fonda dunque non solo sulla centralità del testo, ma anche sul destinatario, sul pubblico, sul suo «orizzonte d’attesa», sulla ricezione o percezione dell’opera, sulla ricostruzione delle modalità attraverso cui essa viene variamente interpretata e accolta. Ma anche il rapporto dell’Io (centro della mente cosciente) con l’Altro Io (l’inconscio) – entrambi costituenti il Sé (totalità psichica di elementi consci e inconsci) – è, per la psicanalisi, mediato dal linguaggio («il discorso dell’Altro» che spesso sconvolge il quadro ordinario, ordinato e consueto della realtà), e il significato profondo dell’inconscio si nasconde, ad esempio, nelle immagini simboliche dei nostri sogni. Il sogno è «drammatizzazione», trasformazione dei pensieri in immagini, e il materiale onirico prende forma, per Lacan, attraverso i meccanismi della condensazione e dello spostamento, ossia della metafora e della metonimia. Grazie al linguaggio artistico – ad alto tasso di figuralità e ad alta densità connotativa e simbolica – si possono perciò aprire dinanzi al critico varchi insospettati e insospettabili attraverso i quali poter scandagliare la psiche. Attraverso l’analisi, ad esempio, dei temi e dei motivi ricorrenti, delle isotopie sememiche, delle figure archetipiche, delle metafore ripetute, delle figure retoriche insistite, si può scovare sotto il testo letterario, l’«altro testo», abitato dal rimosso e dalle pulsioni celate, per recuperarne le verità nascoste.

La rivoluzione culturale novecentesca ha dunque inevitabilmente messo in crisi, insieme al concetto ottocentesco di stato nazione, anche l’idea stessa di letteratura nazionale monolitica e monolingue. Il segno letterario non può prescindere dal suo sostrato, che è il codice linguisti-co. Perciò oggi non ha più senso parlare di letteratura italiana, quanto semmai di comunicazione letteraria degli italiani, ossia di sistemi letterari policentrici la cui identità si è storicamente e geograficamente affermata grazie al contributo di più lingue e di più culture. La considerazione della letteratura come sistema integrato della comunicazione ha dato un importante contributo alla filologia e alla critica contemporanea. Con la riflessione aggiornata sui concetti di lingua e di testo, funzione e scopo, letterarietà e sistema, oralità e scrittura, comunicazione e cultura, si sono gradualmente riconsiderati, infatti, i fondamenti epistemologici che col tempo hanno condotto a uno studio diverso della fenomenologia letteraria, che, come ha scritto Nicola Tanda, non può essere inclusa in modo semplice nei vecchi termini della «storia della letteratura in una sola lingua ma, semmai, in quelli nuovi di storia e geografia della comunicazione letteraria, di uno studio cioè della produzione ma anche della circolazione e della ricezione dei testi – intesi e studiati prima di tutto per la loro natura linguistica – in uno spazio storicamente circoscritto e in situazioni complesse di plurilinguismo e di pluriculturalismo».

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